PERIODO VITTORIANO
L’età vittoriana (dal 1837 al 1901: rispettivamente, l’anno dell’incoronazione e quello della morte della regina Vittoria) fu un periodo caratterizzato da profondi mutamenti sociali, che spinsero gli scrittori a prendere posizione su temi di immediato e comune interesse. Anche se forme letterarie tipicamente romantiche continuarono a dominare per gran parte del secolo, molti scrittori diressero la loro attenzione a temi quali la crescita della democrazia inglese, l’educazione delle masse, le difficili condizioni di vita degli operai, il progresso industriale e l’affermazione di una filosofia materialistica. A ciò si aggiunse il dubbio insinuatosi nelle credenze religiose a causa delle nuove scoperte scientifiche, soprattutto la teoria dell’evoluzione e lo studio storico della Bibbia, che indussero molti intellettuali a indagare con nuovo interesse problemi legati ai concetti di fede e verità.
La ricca produzione in prosa del periodo è dovuta a grandi scrittori che presero posizione nei più importanti dibattiti sociali: mentre lo storico Thomas Babington Macaulay esprimeva, con prosa limpida e toni equilibrati, la soddisfazione e la fiducia della borghesia inglese nei confronti del progresso economico, John Henry Newman si schierava contro il materialismo e lo scetticismo dell’epoca, auspicando il recupero della fede cristiana. Altrettanto critico nei confronti del materialismo e dell’utilitarismo, Thomas Carlyle, influenzato dalla filosofia idealista tedesca, proponeva il culto del lavoro come manifestazione dell’energia che muove l’universo e un’austera religiosità attraverso la quale riscoprire il valore e la nobiltà dell’esistenza. D’altro genere furono le risposte elaborate da due raffinati scrittori vittoriani come John Ruskin e Walter Pater, entrambi critici nei confronti della civiltà industriale e interessati al recupero di una dimensione estetica. In Ruskin tale dimensione è ancora profondamente legata a una visione etica e sociale dell’arte, mentre in Pater si limita all’affermazione del principio dell’“arte per l’arte”, dando luogo a un elegante e prezioso edonismo antivittoriano, che susciterà l’entusiasmo della generazione decadente. Nel momento in cui l’estetica romantica cedette il passo all’osservazione accurata delle relazioni sociali e dei problemi individuali, il romanzo divenne la forma dominante all’interno della letteratura vittoriana. Il graduale passaggio tra le due fasi è individuabile, all’inizio dell’Ottocento, nei romanzi di Jane Austen (Orgoglio e pregiudizio, 1813; Emma, 1816). Erede dei grandi romanzieri del Settecento e raffinata indagatrice di ambienti domestici e provinciali, la Austen analizzò sottili tensioni e tormenti segreti in un serrato gioco di rapporti interpersonali. Negli stessi anni, il romanzo storico di Walter Scott (Ivanhoe, 1819) stabiliva una tendenza alla ricostruzione favolosa del passato contro la quale gli scrittori realisti avrebbero in seguito reagito. Soltanto con Charles Dickens e William Makepeace Thackeray iniziò il processo di maturazione che avrebbe poi portato alla coerente indagine delle motivazioni psicologiche, dei condizionamenti sociali e della loro interazione. I romanzi di Dickens (Oliver Twist, 1837-1839; David Copperfield, 1849-50; Grandi speranze, 1861) mostrano la sua straordinaria abilità nel denunciare con durezza i problemi sociali, creando nel contempo un universo di personaggi indimenticabili, ritratti con affettuoso umorismo e gusto per la caricatura. La tendenza al sentimentalismo, a cui Dickens spesso indulgeva, è meno marcata nei romanzi di Thackeray (come La fiera della vanità, 1847-48), in cui l’autore si concentrò sull’analisi degli ambienti della media e alta borghesia, mostrando una notevole maestria nella creazione dei personaggi e nel controllo dello stile: doti che, tuttavia, non gli consentirono di stabilire con i lettori il rapporto immediato che riuscì invece a instaurare Dickens. Altre figure importanti del romanzo vittoriano furono Anthony Trollope, celebre per le sue indagini, pervase di garbata ironia, degli ambienti ecclesiastici e dei circoli politici; Emily Brontë, che può essere considerata un’erede del romanticismo per la forza selvaggia con cui rappresentò turbamenti e passioni in Cime tempestose (1847); George Meredith, scrittore difficile e sofisticato, di cui oggi si ricorda soprattutto L’egoista (1879); Thomas Hardy, che negli ultimi decenni del secolo scrisse romanzi segnati da un cupo pessimismo circa le possibilità dell’uomo di modificare il proprio destino. Robert Louis Stevenson, Rudyard Kipling e Joseph Conrad perseguirono un recupero della narrativa di azione e di avventura, scegliendo ambientazioni esotiche come sfondo a romanzi di formazione, ad acute analisi dei rapporti sociali e razziali, o a enigmatiche esplorazioni della psiche umana. Vero manifesto del decadentismo europeo è invece Il ritratto di Dorian Gray (1891) di Oscar Wilde. Un’altra tendenza fu quella di Enoch Arnold Bennett e John Galsworthy, che rappresentarono il loro tempo con grande accuratezza realistica. L’interesse per i problemi sociali accomuna questi autori a Herbert George Wells, oggi ricordato soprattutto come pioniere della fantascienza. Come gran parte dei prosatori, anche i tre maggiori poeti dell’età vittoriana, Alfred Tennyson, Robert Browning e Matthew Arnold, indagarono temi sociali. Segnato dalla formazione romantica, Tennyson affrontò problemi di fede religiosa, mutamenti sociali e potere politico, soprattutto nell’elegia In memoriam (1850) e negli Idilli del re (1859), elaborando uno stile e scegliendo posizioni conservatrici che contrastavano con la corroborante asprezza della poesia di Robert Browning, autore di numerose raccolte poetiche fra cui Campane e melograni (1847), Uomini e donne (1855), Dramatis Personae (1864). Acuto critico letterario oltre che poeta, Matthew Arnold espresse in componimenti come Dover Beach (1867) un amaro e disilluso pessimismo, temperato da un profondo senso di responsabilità nei confronti del destino umano in tempi di rapida trasformazione. In posizione antitetica rispetto ai valori di impegno sociale, didattico e conoscitivo, decisamente più vicina alla cultura estetico-decadente di fine secolo, era invece la poesia di Algernon Charles Swinburne, Dante Gabriel Rossetti e William Morris. Gli ultimi due furono anche celebri artisti, legati al movimento preraffaellita, i cui adepti si proponevano di liberare la creatività dal materialismo e dal realismo più convenzionale per ricondurla a una più complessa autenticità conoscitiva. In quel periodo il rapporto fra la letteratura e le arti visive fu particolarmente intenso e significativo: i temi pittorici riecheggiavano spesso le composizioni poetiche più apprezzate dell’epoca, o si ispiravano alle rielaborazioni moderne della tradizione classica e medievale. L’impegno politico e morale ispirò le opere dell’irlandese George Bernard Shaw, che più di chiunque altro si adoperò per riportare il teatro, irrigidito nelle convenzioni della farsa e del melodramma, a una più vivace e concreta rappresentazione della realtà. Ispirandosi anche alle più innovative teorie economiche e filosofiche, con poderosa vena satirica sferrò spietati attacchi al perbenismo, all’ipocrisia e alla mentalità conformista dell’epoca.
Nell’ultimo scorcio di secolo occupa un posto di particolare rilievo l’opera teatrale di Oscar Wilde. Le sue quattro commedie Il ventaglio di Lady Windermere (1892), Una donna senza importanza (1893), Un marito ideale (1895) e L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895) costituiscono forse il migliore esempio di teatro brillante, non privo di caustici spunti di satira sociale. Più rispondente alla sua sensibilità estetizzante e decadente è invece il dramma Salòmè, scritto in francese nel 1891 e pensato per la recitazione della grande attrice Sarah Bernhardt.
Autore rappresentativo: Ruyard Kipling
domenica 6 dicembre 2009
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