domenica 6 dicembre 2009

La diffusione della narrativa gotica

LA DIFFUSIONE DELLA NARRATIVA GOTICA[1]
Nell’ambito del romanticismo emerge un nuovo tipo di letteratura che scaturisce dalle tendenze e dal clima culturale del periodo. La concezione aristotelica secondo cui la tragedia nel suo suscitare terrore e pietà porta alla catarsi viene trasferito da Burke in un nuovo contesto. Il dolore e il terrore possono essere fonte di diletto, un diletto che non è propriamente amabile o dolce ma una sorta di delizioso orrore, una tranquillità venata di terrore. Riferimenti a Shakespeare e Milton, citazioni e precisi echi strutturali e tematici sono presenti in tutta la cosiddetta narrativa “gotica” del tardo Settecento e primo Ottocento. Si tratta di un genere iniziato, in modo piuttosto consapevole, da Horace Walpole con la breve novella del 1764 The Castle of Otranto. Il massimo della sua fioritura si colloca negli ultimi anni del secolo, ma tracce del suo influsso, sono percepibili in tutta la letteratura inglese, dall’epoca delle Brontë e di Dickens sino ai giorni nostri. Tale piacevole orrore viene generato da scenari dominati da rovine e dall’ambientazione in un passato remoto. Prospera grazie al costante riferimento a strapiombi, torture e terrori, alla negromanzia, alla necrofilia e ai prodigi inquietanti. Si pasce di storie di possessione, morti improvvise, celle, sogni, diavolerie, spettri e profezie. La narrativa gotica è stata, ed è ancora, essenzialmente una reazione contro la sicurezza e la tranquillità, contro la stabilità politica e l’espansione commerciale; ma, soprattutto, il gotico è una sfida alla legge della ragione.
Di particolare rilievo è il Frankenstein di Mary Shelley che concepì il suo romanzo come un divertissment durante un’estate piovosa trascorsa in Svizzera assieme al marito e a Byron. Il tutto nacque dalla proposta per cui ogni membro del gruppo avrebbe dovuto scrivere una “storia di fantasmi”. Questa sfida costò all’autrice una notte insonne; ella sprofondò in uno stato di feconda semicoscienza nell’universo del terrore. Frankenstein, però, è ben più del ricordo di una notte in preda alla paura; il romanzo analizza a fondo la tematica della responsabilità morale e indaga sull’apparato di conoscenze a cui oggi diamo il nome di “scienza”. La tendenza, propria di Byron e dei membri della sua cerchia, a sviluppare le idee fino alle loro estreme conseguenze e a saggiare ogni sorta di sensazioni ed esperienze, si trasfigura qui in un esame delle possibili ripercussioni della sperimentazione e dell’esplorazione dell’ignoto. Al tempo stesso, però, questo capolavoro, è anche un’accurata e fantasiosa dissertazione sui principi della libertà e dei diritti umani tanto cari ai genitori della scrittrice e quindi insiti nella sua mentalità.

[1] Inizialmente il termine stava per “medievale” ma, alla fine del Settecento, il significato cambiò fino a voler dire “macabro”, “fantastico”, “soprannaturale”.

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